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It’s crazy what You could’ve had. A proposito di “Country Feedback” dei REM

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(fonte immagine)

Tutti hanno una canzone preferita dei REM, e anche Michael Stipe – nato il 4 gennaio 1960, lo stesso giorno in cui Albert Camus moriva in un incidente stradale – sembra avere la sua; o almeno così ha detto più di una volta, persino davanti a migliaia di persone. Insomma durante i concerti, prima di cantarla. Pur considerando quanto siano irrimediabilmente volatili le opinioni di un artista, e ancora di più quanto possa essere oscillante la scelta di Una Canzone Preferita, possiamo credergli. Forse la canzone dei REM preferita da Michael Stipe è anche la mia. Forse.

Una delle cose più belle della rete, ad aver pazienza e tempo da perdere, è leggere i commenti sotto i video che riproducono le canzoni. È una cosa che va avanti dagli albori di internet, e va bene così. A volte ci sono i testi trascritti per intero, altre volte invece soltanto brandelli di versi. Più dei forum dedicati, queste frasi di poche righe, alcune insospettabilmente profonde e altre semplici come può essere semplice la frase “adoro questa canzone”, raccolgono impressioni immediate, di pancia, meno cerebrali di quanto possa essere un’elaborata esegesi realizzata da un fan perfettamente consapevole dell’importanza di Gardening at Night nei primissimi passi mossi dai REM nella loro carriera. A proposito di carriera: il 5 aprile i REM hanno compiuto quarant’anni, anche se non esistono più e anche se quando suonarono per la prima volta insieme – il 5 aprile 1980, dentro una vecchia chiesa decrepita, per metà appartamento e per metà club autogestito – neanche si chiamavano REM. Erano ancora senza nome. Questa cosa del non-nominare, questo rapporto riottoso/complicato eppure tremendamente seducente con le parole li accompagna dalla culla.

Ecco alcuni dei commenti che ho trovato a proposito di Country Feedback, la canzone dei REM preferita da Michael Stipe:

  1. This song is littered with methaphors that could mean anything.
  2. Anyone ever feel like their life story is on a maddening loop.
  3. what is this song about??? regrets???
  4. The only song you listen too but never understand
  5. The better guitar solo of Mr. Peter Buck.
  6. This is my favourite song from Out Of Time… but I can’t decide my favourite rem song.
  7. I don’t think the human body has the necessary circuitry to process the feels that this song evokes.

E via discorrendo. In effetti un’idea per scrivere questo pezzo era di ricopiare pari pari soltanto un fitto gruppo di commenti; probabilmente avrebbe funzionato alla grande, e si sarebbe scritto – quasi – da solo. Ad ogni modo, alcune delle frasi qui sopra suggeriscono un’idea sulla natura di Country Feedback. Prendiamo il mistero delle parole: è un elemento ricorrente. È vero che capire di cosa parla veramente una canzone è un’arte antica, ma nel caso dei REM la sfida si gioca su livelli alti e complessi. Country Feedback è la quintessenza di quella certa maniera Michael Stipe di dire e non dire, evocare e sottrarre. Un altro tizio commenta ed è pronto a mettere la firma sul fatto che quello di Country Feedback sia il miglior assolo di Peter Buck. Il penultimo commento l’ho trascritto perché porta acqua al mulino del primo paragrafo di questo pezzo. L’ultimo, be’, l’ultimo appartiene alla sfera dei commenti più ispirati, quelli che segretamente ognuno di noi vorrebbe aver scritto – non fosse altro che per prendere tutta quella marea di like.

Mike Mills, bassista dei REM, un uomo a cui tutti vogliamo bene e per cui l’adagio «nerd before it was cool» sta persino stretto, ha detto: «Certe volte, se stai in una band, arriva il proprio momento. E dal 1990 al 1995 fu proprio il nostro momento. Abbiamo soltanto colto l’occasione, e per moltissimi gruppi è così che funziona. Producevamo ottime cose, giravamo con il tour e andavamo di moda. Tutte queste cose arrivarono insieme nello stesso momento». Ecco, Country Feedback sta dentro questo momento REM. Ma non come può esserlo l’occhio di un ciclone, l’acme visibile a distanza di decine di chilometri: quella è Losing my Religion. Country Feedback sta un passo avanti – a essere precisi: otto passi avanti, quante sono le canzoni nella scaletta di «Out of Time » che separano l’una dall’altra. Quel tanto che basta a privarla della patina di inevitabile sfinimento che infine colpisce ogni canzone suonata a distanza di anni in modalità heavy rotation in certe stazioni classic rock, senza però relegarla nel microcosmo delle gemme nascoste, del tesoro riservato ai fan duri e puri.

Le parole hanno la loro importanza anche nelle canzoni. Nei REM l’incontro tra parole e musica si è realizzato in una maniera unica, speciale, e questa è parte della loro arte. Per anni i REM non hanno voluto stampare i loro testi; «le parole devono essere libere», diceva Stipe, con sommo sbigottimento di chi in realtà voleva capire bene cosa stesse declamando – a quindici anni non tutti siamo così sofisticati. Ma il suo modo di cantare, in effetti, contiene questa dimensione volante delle parole: le ingloba, le riveste. Nelle canzoni dei REM le parole sembrano fatte d’aria, appaiono più leggere, come fossero aeree di per sé, munite di ali, eteree. A volte la sensazione è che le parole smettano di essere quello che sono (le costruzioni linguistiche che usiamo per esprimere un significato) per andare da un’altra parte, verso il puro suono.

Le spiegazioni per questo effetto-aereo (pensate alle note di Electrolite, all’incanto avvolgente di Perfect Circle eccetera eccetera) chiamano in causa un paio di fattori. Uno: la musica dei REM, con quelle partiture brillanti che rimandano ai Byrds o ai Big Star e a volte persino ai Beach Boys, evoca di per sé scenari aperti, luoghi della mente dove l’aria deve circolare libera. Due: i testi di Micheal Stipe, che si adattano perfettamente alle stanze musicali costruite da Bill Berry, Peter Buck e Mike Mills. Non proprio un archivio sterminato di cultura musicale («Una volta, mi pare negli anni Novanta, arriviamo in aeroporto e passano Tomorrow Never Knows, e Michael mi fa: carino, chi è?», ha raccontato Peter Buck), Stipe attinge però con gran talento al pozzo della sua eroina Patti Smith, e attraverso di lei arriva ai poeti francesi e alla letteratura sperimentale di William Burroughs, da cui ricava il gusto per il pastiche nella scrittura. «A volte apro la bocca e via, ecco la canzone sul foglio», dice. Lui le chiama «vomit songs». Country Feedback appartiene a questo gruppo.

È buffo, perché «Out of Time» ha rappresentato a lungo uno spartiacque nella carriera dei REM – e ancora continua a esserlo, probabilmente: segnò il loro definitivo passaggio all’età adulta. In realtà, «Out of Time» fu il secondo album dei REM a uscire per una major, Warner Bros: prima c’era stato Green. Ma Green non aveva né Losing my Religion (anche se c’era World Leader Pretend; quella che in molti ritengono essere «la prova generale» per Losing my Religion) né Shiny Happy People: non aveva, insomma, le due hit che riempirono il palinsesto di MTV e delle radio di tutto il mondo, conferendo ai REM lo stato di band dal successo planetario ma alienando d’altro canto l’attenzione (e il rispetto, in un certo senso) dei fan della prima ora. Le ragioni del perché questo sia accaduto sono diverse: sono musicali, certo, sono iconografiche (e chi amava i REM di Seven Chinese Brothers e Kohoutek aveva anche il diritto di sentirsi tradito dal Michael Stipe gigione e buffo immortalato nel video di Shiny Happy People); ma sono anche pose, e in tutta questa faccenda della musica, in fondo, assumere una posa non è un aspetto affatto secondario.

«Out of Time», però, non è solo Losing my Religion e Shiny Happy People – peraltro due canzoni bellissime; sì, anche Shiny Happy People, me ne assumo la responsabilità – vale a dire le canzoni che di quell’album hanno ascoltato proprio tutti. Ci sono anche Low, Half a World Away, con una deliziosa linea di clavicembalo a punteggiare il canto (provate ad ascoltarla durante certe passeggiate a piedi nelle cuffie o al volante di un’automobile con l’autoradio che ti dà una sferzata: quando Stipe attacca con This could be the saddest dusk I’ve ever seen, ecco spiegato cosa intendo con quella dimensione aerea), e soprattutto lei, Country Feedback.

Per un certo periodo di tempo i REM tendevano ad assegnare un macro-tema a ogni album da loro inciso. Non esattamente un concept, qualcosa di meno rigido – la rigidità è un concetto così poco REM. Automatic for the People è la morte; in Monster la violenza e il sesso. Il tema di «Out of Time» era l’amore. Intervistato da Q, Michael Stipe disse: «L’album lo volevo chiamare ‘Fiction’. Mi sembrava un titolo descrittivo: tutte le canzoni in definitiva erano invenzioni, sono tutte canzoni d’amore. A un certo punto pensammo di chiamarlo ‘Love Songs’, ma ci sembrò un po’ troppo stupido. ‘Out of time’ era più appropriato: a livello tematico, il disco tratta del tempo, della memoria e dell’amore».

E Country Feedback è una canzone d’amore, perlomeno nella maniera in cui può esserlo un testo di Michael Stipe. «È una canzone d’amore, ma l’amore visto dal suo lato peggiore», ha detto lui stesso. Ironia vuole che accanto alla traccia di Country Feedback Spotify abbia aggiunto la scritta EXPLICIT; quando di esplicito non c’è niente. C’è una rottura, quello sì: non è difficile immaginarlo. Ma tutto quello che circonda la rottura, dalle cause che l’hanno generata fino alle possibilità rimaste inespresse o volate in chissà quale altra dimensione parallela, i rimpianti, il tempo perduto… quello è soltanto accennato attraverso una manciata di immagini, parole-fotogrammi. Ogni frase è un pezzo di qualcosa di più grande eppure è in grado di funzionare da sé, e tutte le volte che ascolti questa canzone c’è un verso diverso a catturarti. Ascoltandola poco fa è toccato a «I lost my head». Un’altra volta può succedere quando Stipe canta «Ducked out in a row», con quel «Ducked out» che sembra un’onomatopea.

Subito dopo arriva una parte con una scrittura tipicamente Stipe: quando canta «Plastics, collections / Self-help, self-pain / EST, psychics, fuck all», l’insieme di parole che si rincorrono e sovrappongono; è un tipo di scrittura che ritroviamo altrove, ad esempio in Drive («Smack, crack, bushwhacked»), Strange Currencies («Ring you up, call you down, sign your name / Secret love, make it rhyme»), E-Bow the Letter («I wore it like a badge of teenage film stars / Hash bars, cherry mash and tinfoil tiaras»), con tutte queste S che scintillano.

Ma se Country Feedback funziona per accumulo di immagini richiamando l’idea di cerchi che s’allargano, il cuore emotivo della canzone si palesa senza dubbio quando Michael Stipe inizia a cantare It’s crazy what you could have had, nella parte di mezzo della canzone, prima che inizi a finire. Il che chiama in causa la nascita stessa di Country Feedback, registrata una volta sola, tanto che la versione di «Out of Time» doveva essere la demo del pezzo. Un pomeriggio, durante le sessioni per l’album, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry iniziarono a suonare mettendo insieme una base acustica; John Kean, proprietario dello studio di registrazione, ci aggiunse una chitarra pedal steel. Il giorno dopo Michael Stipe cantò su quella base. «Erano parole su un foglio che non erano neppure state messe in ordine. Entrai nella cabina, mi misi le cuffie, le cantai e basta. Quella fu la versione che tenemmo. Le parole erano scritte su un pezzo di carta, ma non avevo idea di quante volte dovessi ripetere un determinato verso, né che quel It’s crazy what you could have had sarebbe stato utilizzato così a lungo».

Le ho contate: in tutta la canzone, nella lunga coda finale a partire dal minuto 2:05, il verso It’s crazy what you could have had viene cantato dodici volte. Così: 1 2 3 4 5 6 (dopo la sesta volta la voce di Stipe inizia a salire) –  7 8 9  (la voce di Stipe sale ancora un po’ più su, quasi spezzandosi) – 10 11 12. Dopo *10 la voce va lentamente spegnendosi, fino a diventare un sussurro intrecciandosi in una maniera davvero struggente con la chitarra di Peter Buck. Nei concerti, a volte Michael Stipe ha cantato Country Feedback di spalle al pubblico – e così l’ho sentita io, a Milano nel 2005. Per timidezza – Peter Buck ricorda quanto fosse timido Michael Stipe quando lo conobbe, da ragazzo – o per sottrarsi, sparire: in realtà, una modalità che finisce con il caricare ancora di più la potenza emotiva della canzone, la combinazione tra quello che sta dicendo e come lo sta cantando.

Una volta, a un evento benefico in California, nel 1998, Neil Young si aggiunse ai REM per suonare proprio Country Feedback. Con la barba incolta e un cappello da cowboy in testa suonò soltanto, aggiungendo la sua chitarra specialmente nella parte finale; nel video si vede Stipe cadere in ginocchio, rapito anche lui dalla magia creata. Del resto, tra le correnti che imperversano nella canzone soffia un forte vento Neil Young, nel modo in cui sono venute fuori le parti di chitarra, innalzando e spezzando continuamente, come a tenere tra le mani un oggetto prezioso per frantumarlo e rilegarlo e frantumarlo ancora; quel suono languido sul filo invisibile tra speranza e disperazione. Lo stesso filo che separa It’s crazy what you could have had da It’s crazy what you couldn’t have, e dato che «le parole devono volare», l’inganno resterà perpetuo.

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

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